Non solo Apec: l'attivismo diplomatico cinese .
La puntuale “crociata”
Nell'immediata vigilia del vertice Apec (Asia-Pacific Economic Organisation) scriveva l'Economist: "Dal 10 novembre il presidente Xi Jinping accoglierà i leader mondiali per il vertice Apec di quest'anno. Era dai tempi delle Olimpiadi del 2008 che così tanti leader non si trovano riuniti nella capitale, e con la presenza dei capi di Stati Uniti, Russia e Giappone. Si tratta di un momento decisivo per la politica estera del signor Xi.
Dopo essersi imposto all'interno come il più potente capo della Cina da Deng Xiaoping, ora sembra voler chiedere per la Cina un ruolo più
importante, più dominante e più rispettato che nessuno dei suoi predecessori, Deng incluso, ha mai osato chiedere”1. La stampa internazionale aveva ben chiaro che l'incontro fissato a Pechino per il 10-11 novembre non si sarebbe svolto all'insegna della routine diplomatica, ma avrebbe, se non segnato una svolta, di certo registrato il progressivo cambiamento dei rapporti di forza internazionali, soprattutto in Asia orientale e, quindi, a livello planetario. Tanto che in pieno vertice, sul Sole 24ore – quotidiano che in Italia più di tutti ha seguito l'evento – lo studioso di relazioni internazionali Vittorio Parsi, nel constatare l'attivismo del presidente cinese Xi Jinping, ha concluso così un suo editoriale: “Forse gli storici del futuro collocheranno in vertice Apec l'inizio dell'era del dragone nel Pacifico”2.
E proprio come in occasione delle Olimpiadi del 2008, si sono presto attivate le agenzie internazionali dell'indignazione e della crociata anti-cinese. Ed ecco Amnesty avanzare a Pechino la richiesta di liberazione degli attivisti di Hong Kong pro-democrazia e l'invito a tutti i leader Apec a "rompere il muro di silenzio" sulla repressione per spingere il governo cinese al rilascio dei detenuti. Sì, Pechino dovrebbe dare libero sfogo ad un movimento - con oggettivi finanziamenti/appoggi internazionali - che mette in discussione l'integrità cinese e la legittimità di governo che, contrariamente all'ex potenza coloniale britannica, ha dato il via ad un processo che ha concesso ai cinesi di Hong Kong - per la prima volta nella storia! - il suffragio universale
Eppure al vertice Apec partecipano anche gli Stati Uniti di Obama che ancora oggi mantengono in vita il lager di Guantanamo e la pratica settimanale delle "kill list" che condannano a morte - per via di giudizio sommario del Comandante in capo - anche cittadini statunitensi, oltre che presunti terroristi di tutto il mondo. Ad insindacabile giudizio di sua maestà il Presidente imperiale.
E proprio un recente rapporto stilato dagli “Avvocati Difensori nei procedimenti legali contro la tortura degli Stati Uniti,” presentato al Comitato dell’ONU contro la Tortura, ha concluso che le amministrazioni presidenziali di George W. Bush e di Barack Obama sono responsabili di violazioni su vasta scala delle leggi internazionali per aver diretto e nascosto un programma globale di torture sviluppato negli anni successivi agli attacchi dell’11 settembre 2001. Ad essere responsabili sono intere sezioni dell'apparato statale statunitense3.
Qualche passo indietro
Ma non è tutto. Per cercare di “rovinare la festa” a Pechino si è mossa anche la diplomazia statunitense con l'obiettivo di fermare il consenso che si stava formando intorno al progetto cinese di una vasta area di libero scambio che coinvolgesse la zona Asia-Pacifico (Cina, Usa, Giappone e Russia compresi) in contrapposizione sostanziale al TPP (Trans Pacific Partnership) spinto da Washington e che vede escluse proprio Pechino e Mosca. Un accordo che alla Cina, secondo quanto riportato dallo Wall Street Journal, “costerebbe circa 100 miliardi di dollari l'anno” in esportazioni perse4, e una ovvia diminuzione di influenza nell'area a causa di un progetto che accompagna il tentativo (“Pivot to Asia”) di containment obamiano con il riattivarsi delle alleanze militari regionali.
Lo stesso attivismo si era in precedenza sviluppato per ridimensionare un'altra delle tante iniziative di Pechino, messa in campo alla vigilia dell'Apec: la Asia Infrastructure Investment Bank (AIIB) che vede ad oggi coinvolta una ventina di Paesi (Bangladesh, Brunei, Cambogia, Cina, India, Kazakistan, Kuwait, Laos, Malesia, Mongolia, Myanmar, Nepal, Oman, Pakistan, Filippine, Qatar, Singapore, Sri Lanka, Thailandia, Uzbekistan e Vietnam) e che ha come scopo il finanziamento – attraverso il coinvolgimento di governi e privati - di progetti infrastrutturali a sostegno della connessione economica lungo la “Nuova Via della seta” (incluso il progetto di collegamento ferroviario Pechino-Baghdad). Alle mancate adesioni di Australia, Corea del Sud e Indonesia ad un progetto visto in concorrenza alle istituzioni finanziarie a controllo occidentale pare non essere estranea proprio la pressione statunitense. Scrive il Financial Times: “Ma grazie alle pressioni degli Stati Uniti – trasmesse da diplomatici americani a Pechino, Washington e altre capitali - nessuno di questi paesi entreranno a far parte della banca in questa fase, anche se alcuni sperano di essere coinvolti in seguito”. La sfida messa in campo è ovviamente percepita sulle rive del Potomac: “La AIIB insieme alla banca Brics, che comprende Brasile, Russia, India, Sud Africa e Cina rappresentano la prima grave sfida istituzionale per l'ordine economico mondiale stabilito a Bretton Woods nell'estate di 70 anni"5. Sulla stessa linea d'onda è anche il National Interest per il quale la nuova banca d'investimento di “matrice” cinese annuncia l'ingresso a ritmo più veloce del previsto in un “Mondo senza l'Occidente” sulla scia di una serie di “emergenti istituzioni internazionali” come la Shanghai Cooperation Organisation, il Brics e le iniziative legate alla Nuova Via della Seta6.
Attivismo della Repubblica popolare cinese, quindi, che ha subito una accelerazione negli ultimi tempi e che si è sviluppato su più fronti, lanciando inequivocabili messaggi sul ruolo che il gigante asiatico vuole assumere. Nella sua marcia verso Ovest - espressione ideata dallo studioso Wang Jisi - Pechino si trova subito di fronte l'Afghanistan, dal quale Usa e alleati stanno gradualmente ritirando la propria presenza militare. Per Pechino un'opportunità non solo economica, nella prospettiva dello sviluppo della "Nuova via della Seta", ma anche una nuova fase di impegno politico e diplomatico in un’area assai “calda”. E la visita del nuovo presidente afghano Ashraf Ghani Ahmadzai a Pechino (28-31 ottobre) - la sua prima missione all’estero dopo la nomina – ha detto molto in questo senso. Secondo un’indiscrezione di Duowei News, quest’ultimo avrebbe chiesto alla Cina di favorire l’assistenza della Shanghai Cooperation Organization (Sco) per stabilizzare la situazione nelle zone meridionali e orientali del martoriato Paese. Zone nelle quali le milizie dei Talebani hanno rialzato la testa con inevitabili pericolose conseguenze di infiltrazione dell’estremismo islamico nella regione autonoma cinese dello Xinjiang, recentemente teatro di diversi attentati. Per Shen Shishun, ricercatore senior presso l'Istituto cinese di studi internazionali, un Afghanistan stabilizzato sarebbe “un muro di difesa naturale contro il separatismo e il terrorismo che si riversano oltre il confine". Per favorire il processo di stabilizzazione Pechino – in base a documenti consultati dall'agenzia Reuters – ha avanzato la proposta di un “Forum di pace e riconciliazione” che veda la partecipazione del governo afghano e dei Talebani (militarmente ancora forti) e rappresentanti del Pakistan7. Proprio con quest'ultimo – oltre alla collaborazione sempre più stretta in materia di lotta al terrorismo – un accordo di 34 miliardi di dollari su energia e infrastrutture. Ancora più a ovest la Cina ha approfondito i legami politico-militari con l'Iran con una “prima volta” in assoluto che non può certo passare inosservata alla luce della rilevanza strategica dell'area interessata: a fine settembre un cacciatorpediniere e una fregata della Repubblica popolare cinese hanno attraccato nel porto meridionale iraniano di Bandar Abbas nell'ambito di una esercitazione comune (“Velayat 3”) che che ha visto impegnate per quattro giorni le due Marine in operazioni di salvataggio marittimo, addestramento in caso di incidenti in mare aperto e di contrasto alla pirateria. Area strategica, abbiamo detto, perché il porto iraniano non solo si trova a ridosso dello Stretto di Hormuz, passaggio del Golfo Persico dove transita un quinto del petrolio mondiale (e ben il 17% dell'oro nero prodotto nell'area), ma fronteggia anche la base della 5a flotta della Us Navy in Bahrain. Pechino è dal 2007 il principale partner commerciale di Teheran, tanto che nei primi mesi di quest'anno ha importato oltre 600mila barili di petrolio, segnando un +48% rispetto allo stesso periodo del 2013. A questo rapporto ormai "storico" si affianca, quindi, una collaborazione politica e militare - in stile Shanghai Cooperation Organisation con un Iran tra i possibili nuovo aderenti - in un'area di tradizionale (e preponderante) presenza militare statunitense.
La visita e l’esercitazione rappresentano, nel quadro della partecipazione cinese alla missione internazionale anti-pirateria, la volontà di Pechino di spingere la propria proiezione navale oltre i “mari regionali” per garantire la propria sicurezza, soprattutto in riferimento alle vie di comunicazione marittima, nei “mari lontani”. La libertà di navigazione, in un quadro di collaborazione (“oceani armoniosi”) internazionale, è considerata condizione indispensabile per lo sviluppo del Paese. Per il Global Times è il segnale dell'importanza della partnership con l'Iran al fine di evitare un blocco dello Stretto di Hormuz da parte degli Stati Uniti. L'analista militare Huang Dong ha confermato questa prospettiva: la Cina non sta provocando gli Stati Uniti, ma l'invio di navi da guerra nel Golfo Persico serve a far sapere a Washington sapere che la marina cinese ha la capacità di difendere lo Stretto di Hormuz e l'Oceano Indiano8.
E all'Apec
Un attivismo che si è riversato nel vertice “intereconomico” dell'Apec che si è svolto a Pechino il 10 e l'11 novembre e che, secondo un giudizio pressoché unanime della stampa internazionale, si è concluso con il successo diplomatico di Pechino, assurta ormai a matura super-potenza mondiale in grado di trattare su un piano paritario con gli Stati Uniti. Non solo: per altri il vertice avrebbe sancito il riconoscimento, da parte di Washington, di una sorta di “dottrina Monroe” cinese nell'Asia Orientale sull'onda di un accordo militare che, al fine di evitare pericolosi incidenti in cieli e, soprattutto, in acque piuttosto riscaldate da contrapposte rivendicazioni territoriali e dalla crescente presenza della marina a stelle e strisce, prevede la reciproca notifica delle attività/esercitazioni militari in corso e eventuali sviluppi strategici, oltre a un “codice di condotta” per gestire incontri ravvicinati.
Dottrina Monroe? Pare proprio di no. L'analogia non regge per diversi motivi: a differenza dell'America Latina che ne subì tutte le conseguenze, l'Asia Orientale vede muoversi potenze militari di tutto rispetto piuttosto che una sola superpotenza, vede il riproporsi attivo di alleanze militari nell'ambito del Pivot to Asia statunitense volte a contrastare proprio Pechino e, più di tutto, manca la volontà da parte cinese di imporre una versione asiatica dell'”Emendamento Platt”, vale a dire la proclamazione del diritto sovrano di intervenire militarmente in difesa dei propri interessi a danno della sovranità dei Paesi vicini. L'Asia sud-orientale nella quale agiscono potenze con regimi politici e sociali diversi come Cina, Giappone, India e Australia non può certo essere assimilabile all'America Latina dei primi del Novecento!
Quello che la conclusione del vertice pare delineare è una sorta di tregua, un primo riconoscimento degli interessi cinesi, sotto forma di un “co-dominio” - temporaneo e instabile - Usa-Cina nell'area. Di certo, è l'annuncio di sostanziali cambiamenti nell'equilibrio di potere nell'area, quindi a livello planetario, di fronte alla superpotenza Usa in difficoltà. Ha scritto bene Paolo Mastrolilli su La Stampa: “In teoria, era un incontro tra ventuno paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, finalizzato a definire nuovi accordi per favorire gli scambi commerciali. Nella pratica, però, il vertice Apec che si è appena tenuto a Pechino è stato un delicato esercizio di rapporti di forza, che potrebbe avere implicazioni molto più vaste degli equilibri nella regione. In sostanza un braccio di ferro a tre, fra l’ultima superpotenza rimasta al mondo ma colpita dalla sindrome della decadenza, la nuova potenza emergente, e l’ex superpotenza che si agita per restare rilevante.”9. Siamo di fronte ad un'ulteriore conferma della crescente capacità cinese sul fronte del “soft power” soprattutto in termini economici (“effetto di irradiamento”) e della formazione del consenso nei confronti della propria azione diplomatica ormai in quasi tutti i continenti.
Di certo la storica influenza statunitense in Asia è posta seriamente in dubbio dalle iniziative messe in campo nel “veloce” vertice Apec e dal positivo accoglimento delle stesse da parte dei Paesi presenti. A partire dall'approvazione di una “tabella di marcia” per la creazione di una vasta area di libero scambio Asia-Pacifico (FTAAP) inclusiva che si contrappone al progetto statunitense – il TPP – nato sull'esclusione proprio della Cina (e della Russia) e a supporto di una sorta di Nato dell'Asia sud-orientale (pallino della parte più oltranzista dell'amministrazione Obama e sponsorizzata da Hillary Clinton), oltre che del Pivot to Asia. La nuova area di libero scambio dovrebbe configurarsi – in caso di positiva conclusione del processo – come l' “aggregazione” di accordi già in essere o in via di formazione (tra i primi quello tra Cina e Asean).
Un annuncio, arrivato in conclusione, che era stato preceduto da altre iniziative sempre con Pechino al centro: l'accordo di fatto – dopo oltre due anni di negoziato – per una zona di libero scambio con la Corea del Sud e la messa in campo di un progetto, sempre di libero scambio, con l'Australia, e l'istituzione di un fondo di 40 miliardi di dollari per lo sviluppo della Nuova via della Seta e finalizzato all'avvio di progetti infrastrutturali, rivolti soprattutto ai Paesi in via di sviluppo. Soffermiamoci un attimo su quest'ultimo fronte dell'offensiva diplomatica cinese: il fondo è solo l'ultima delle iniziative messe in campo per l'avvio il sostegno di un progetto certo strategico della leadership di Xi Jinping, che coinvolge una cinquantina di Paesi e circa 3,8 miliardi di persone e che, alla fine, con un valore economico di oltre 21mila miliardi di dollari. Commenta a proposito sui possibili sviluppi il The Diplomat: “Per la Cina, la Via della Seta e la sua versione marittima rappresentano l'opportunità di espandere la propria influenza, e di mettere in mostra il lato più morbido della propria azione. Se portate a compimento, le Vie della Seta darebbero grande impulso al commercio della Cina con tutto il continente eurasiatico. Nel frattempo, con Pechino che paga il conto per gran parte dello sviluppo delle infrastrutture necessarie, la vasta rete commerciale potrebbe, inoltre, aumentare il numero di governi regionali che vedono la Cina più come un mecenate e benefattore piuttosto che una minaccia. Per utilizzare lo slogan preferito della politica estera cinese, è una situazione "win-win". La Cina può favorire una immagine più morbida per se stessa, aumentando al contempo la sua influenza regionale”10.
L'avvio di una fase di tregua con il Giappone del nazionalista Abe è certo una tappa fondamentale per ridurre il livello di tensione nel quadrante orientale e meridionale dell'Asia, anche al fine di bloccare la formazione di alleanze o intese esplicitamente rivolte contro Pechino (segnali di distensione arrivano anche sul fronte Vietnam). L'accordo – che si fonda sul riconoscimento di posizioni diverse in merito alla rivendicazioni territoriali e la volontà di riprendere il dialogo diplomatico attraverso canali multilaterali e bilaterali anche in tema di sicurezza - in quattro punti potrebbe essere il primo indispensabile passo per un rapporto che potrebbe non limitarsi ad una fragile “non belligeranza”11.
Ma non è tutto. Il vertice è stato anche l'occasione per rinsaldare e approfondire l'intesa politico-economica con la Russia con la siglatura di ben 17 accordi economici, tra i quali si impone quello relativo alla fornitura di gas a Pechino del valore di 400 miliardi di dollari, attraverso la costruzione di un oleodotto che attraverserà il sempre più strategico Xinjiang. Ma l'accordo disegna una cooperazione sempre più salda e che poggia su fondamenta come il rispetto della sovranità nazionale, del diritto internazionale e il rigetto dell'unilateralismo di stampo statunitense, e che si spinge fino alla prospettiva di una “de-dollarizzazione” progressiva attraverso un utilizzo sistematico delle proprie monete negli scambi commerciali (88 miliardi di euro, il valore dell'interscambio commerciale tra Mosca e Pechino). L'accordo con la Malesia per l'utilizzo dello yuan nel commercio transfrontaliero è solo uno dei tanti attivati in questo senso (a settembre sono partite la transazioni dirette yuan-euro).
NOTE